Storia di una nascita. Il mio parto tra vita e morte
(Questo racconto lo trovate anche su Cittadeibimbi)
“Mamma, ma il sole vive nella luna?”.
Giro gli occhi e vedo il mio piccolino con il nasino appiccicato alla finestra, mentre guarda meravigliato il sole.
La meraviglia e lo stupore che leggo nei suoi occhi, mi lasciano senza fiato. Lo stringo tra le mie braccia e rispondo alla sua domanda. Poi la mia mente torna indietro nel tempo. Ricordo esattamente il giorno e l’ora in cui scoprii di averlo in grembo.
Era il 9 marzo del 2006. La mia reazione fu un lungo pianto. Mille paure riempirono la mia mente: “Io, un figlio? Non è possibile. Non ce la posso fare. Non ho l’istinto materno. Non so fare la mamma. Non voglio fare la mamma”. Fu un lungo elenco di “non so, non voglio, non posso”.
E mentre continuavo a far scorrere nella mia testa tutte queste negatività, sento il rumore della porta di casa che si apre. Mio marito entra. Io sto preparando il pranzo. Mi fermo, giro lo sguardo, lo abbraccio e dico: "Oh mio Dio, sono incinta". Un altro pianto.
Da quel momento sono passati 4 anni e mezzo. Il mio cucciolo è nato. Lo adoro. Non so se sono una brava mamma. So che senza di lui adesso non potrei più vivere. Una voglia di vivere che continua a darmi ogni giorno. E pensare che non doveva nascere.
Si, perché dopo aver superato tutte le mie paure e le mie insicurezza, mi ero anche abituata all’idea di averlo dentro di me.
Come tutte le donne che scoprono di essere incinte, inizia la routine degli esami e delle visite mediche.
Un giorno, vado in ospedale a ritirare le analisi. Una dottoressa del laboratorio, mi guarda: “Signora, abbiamo un problema. Lei ha contratto la toxoplasmosi. Il feto potrebbe non essere sano e le conseguenze sulla sua salute, in questi casi, sono molto gravi. Potrebbe nascere con delle menomazioni o, altri danni si potrebbero verificare in seguito. In questi circostanze si consiglia sempre di procedere all’aborto. Siamo ancora in tempo per prendere questa decisione”.
Siamo? Ma chi siamo? Sono io che devo decidere. Ma che cosa devo decidere? Di cosa stiamo parlando? Mi fermo un attimo. Mi siedo su una fredda poltrona di plastica dell’ospedale. La dottoressa, continua a parlare, ma io non la sento più. I miei pensieri non ci sono più.
Penso che, quello che lei chiama feto, per me è già il mio bambino.
Che vuol dire toxoplasmosi? Non riesco a fare nessuna domanda.
Torno a casa. Accendo il computer. Notizie sulla toxoplasmosi si susseguono. Sentimenti confusi e contrastanti cominciano a farsi posto nel mio cuore. Nei giorni seguenti, tutti si sentono in dovere di dare un consiglio. Ognuno dice la sua. Discuto con tutti, anche con mio marito. Lui, ostinatamente dice: “Andiamo avanti”. Io sono rinchiusa nella morsa dei dubbi e mi domando: “L’istinto materno mi dovrebbe aiutare a decidere. Io sono la mamma, dovrei sapere cosa fare. Già, ma io non ho l’istinto materno. Io non voglio fare la mamma. Per questo non riesco a trovare la forza di decidere. Per questo non ho la sicurezza, che in questi casi hanno tutte le mamme”.
Dopo lunghe notti insonni, decidiamo di andare avanti.
Gli esami che seguono sembrano dare ragione a chi mi aveva spinto a proseguire la gravidanza. Eppure ogni secondo, ogni giorno, ogni settimana, ogni mese che passa mi lasciano un profondo senso di angoscia. Vivo ogni visita medica, ogni ecografia in totale ansia. Non ho la lucidità e la freddezza che servono per affrontare una situazione come questa. Negli sguardi delle persone che mi stanno accanto, a volte, avverto anche una sorta di pietà. Mi sembra di leggere nei loro occhi : "Poverina, chissà come andrà a finire questa gravidanza? Il bimbo nascerà? Sarà sano?”
Decido che per non pensare, devo continuare a lavorare. Mi tengo impegnata.
Fino al sesto – settimo mese, sono in pochi ad accorgersi che io sia incinta. Lavoro, lavoro, lavoro. La sera quando sono a letto, mi sforzo di sentire il mio piccolo. Provo ad avvertire tutte quelle cose che si raccontano sulle donne incinte, tipo le voglie impossibili o i calci, il singhiozzo. Tutte sensazioni che non distinguo. E’ tutto un “non senso” questa gravidanza. A volte sento qualche movimento, ma è così impercettibile che quasi credo di essermelo immaginato. Ancora adesso non so dire, se ho percepito tutto realmente o se ho solo pensato di vivere alcune emozioni.
Comunque la gravidanza prosegue, tra ansie, angosce e palpitazioni. Sono quasi agli sgoccioli. Mancano una manciata di giorni alla fine e succede un altro spiacevolissimo, se così vogliamo definirlo, incidente.
Siamo al 16 ottobre 2007. Trascorro, con mio marito, una lunga notte con l’orologio alla mano. Avverto ad intervalli, che riscontriamo regolari, dei dolori. Credo che siano contrazioni. Non ci allarmiamo, ma per tutta la notte monitoriamo la situazione. Ci sembra che sia tutto sotto controllo. In base alle cose che la mia ginecologa mi aveva detto sulle sensazioni che avrei provato prima di partorire, credo che ci stiamo avvicinando al momento fatidico. Siamo tranquilli.
All’alba chiamo la mia dottoressa che mi tranquillizza e dice: “Continua a monitorare, se le contrazioni proseguono, vai immediatamente in ospedale”. Così fino alle 9 è tutto un susseguirsi di contrazioni e nei momenti di pausa, approfitto per lavarmi e vestirmi.
Appena sono pronta, mi reco in ospedale. L’accoglienza non è delle migliori, diciamo piuttosto tiepida. Insomma, quella riservata alle primipare. Quella delle primipare è una categoria ritenuta, dai grandi “luminari”, come la categoria delle visionarie, paranoiche, ansiose e chi più ne ha, più ne metta.
Così, i luminari, per liberarsi subito di me, mi fanno entrare abbastanza velocemente e rigorosamente da sola, in una stanzetta, e esaminano il decorso della gravidanza facendomi un tracciato. Alla fine dell’esame, l’infermiera dice che non ci sono in corso contrazioni e che, quelle che io ho ritenuto tali, durante la notte, altro non erano che un’ “indigestione”, o forse pura immaginazione. Insomma, potevo stare tranquilla. Ero solo una “primipara” e, come da manuale, avevo confuso ogni cosa e mi ero fatta prendere da una dose eccessiva di ansia. Non c’era proprio nulla di cui preoccuparsi. Per i luminari, io stavo benissimo e potevo tornare alle mie faccende.
Mi alzo dal lettino con il mio bel pancione e mi ritrovo a parlare da sola: “Possibile, che mi sono immaginata i dolori? C’era anche mio marito accanto a me. Abbiamo contato gli intervalli e le (pseudo) contrazioni, insieme. Ma sì. Forse hanno ragione loro. Adesso me ne vado e chiedo pure scusa. Mentre sto per rivestirmi, una dottoressa, dal fondo di uno studio, mi chiama: “Lei è la primipara? Sì – rispondo io. Va bene allora entri pure”.
A quel punto penso che forse vuole approfondire la visita. Si saranno accorti di qualche anomalia dal tracciato e allora c’hanno ripensato: “Si sdrai sul lettino e si spogli, dice la dottoressa”. Io eseguo, proprio come fanno i bambini, quando, un po’ intimoriti dagli adulti, si lasciano convincere e fanno ciò che gli si chiede di fare. A volte gli adulti sanno dare degli imperativi che non ammettono rifiuti o incertezze. In quel momento, mi sento proprio così. Una bambina indifesa che non può fare altro che obbedire.
La dottoressa fa una visita, diciamo leggermente “invasiva”, e poi mi liquida frettolosamente, dicendo: “Signora, se nella giornata di oggi dovesse avere delle perdite, o cose del genere, non le venga in mente di tornare in ospedale”. Penso ancora oggi a quell’ agghiacciante frase e a quanto sia stata tristemente profetica. Mai un medico è stato così bravo a predire con tanta lucidità un fatto che di lì a poco si sarebbe realizzato. Ma andiamo con ordine.
Lascio l’ospedale, però, mio marito, invece di riportarmi a casa, sapendo di non rientrare per l’ora di pranzo, decide di accompagnarmi a casa di mia madre. Fu proprio quella decisione a cambiare le sorti della giornata.
Una giornata che ricordo con terrore. Trascorsi la mattinata stando sdraiata sul divano. Per tutto il tempo avvertii le stesse fitte che avevo già sentito durante la notte, ma più intense, con dolori più lancinanti e freddi. Provo a non dare peso a quelle sensazioni. La mia soglia del dolore non è proprio al limite, quindi riesco a sopportare senza drammatizzare. Dopo pranzo, sono all’incirca le 14.30, mia madre si addormenta sulla poltrona, mia sorella esce per lavoro e mio padre è fuori casa, sul piazzale esterno. Io sono sempre distesa sul divano.
Mi alzo solo per andare in bagno. Da questo istante ha inizio l’incubo. Un incubo che durerà fino alle 17.45.
Mentre sono in bagno mi accorgo che sul pavimento si è creato un lago di sangue. Mi risiedo velocemente. Conto fino a 5. Penso che è solo una leggera perdita. Del resto, la dottoressa, mi aveva avvertito che poteva succedere. Devo stare tranquilla. Chiudo gli occhi. “Adesso li riapro - mi ripeto - ed è tutto finito”. Purtroppo non è così. Apro gli occhi e mi accorgo che non è un brutto incubo, ma la sconcertante realtà. Mia madre mi sente urlare, ma non può aiutarmi in nessun modo. Non riesce a camminare a causa di una brutta malattia che la costringe a vivere su una sedia rotella. Alla scena non assiste direttamente. Non vede tutto quel sangue, ma con la sensibilità che appartiene solo a chi porta in sé il germe della sofferenza e del dolore, capisce che mi trovo in difficoltà e che ho bisogno di aiuto. Insieme, chiamiamo mio padre, con tutto il fiato che abbiamo in gola. In un lampo mi raggiunge. Mi ritrova in un lago di sangue. Prende uno straccio, prova a pulire il pavimento, ma ogni passata è una pugnalata. Ci riprova, ma niente da fare. Ne scorre dell’altro. L’emorragia non si arresta. Tutto scorre senza sosta. Inesorabilmente.
Mio padre afferra il telefono, chiama una mia zia e le chiede di raggiungerci in fretta. Dobbiamo correre in ospedale. Non si può più aspettare. Mia zia arriva velocemente. La strada che intercorre da casa sua a quella di mia madre, in condizioni normali, ha bisogno di una quindicina di minuti di percorrenza. Ricordo, molto lucidamente, di aver atteso mia zia non più di cinque minuti. Appena varca la soglia del bagno, diventa pallida, non vuole manifestare tutta la sua preoccupazione e con fermezza mi dice: “Forza, sbrighiamoci, ti aiuto a prepararti”.
Nel giro di dieci minuti arrivo in ospedale, avvolta in un gigantesco pannolone. Appena entro avverto ancora una volta gli sguardi dei medici che si incrociano. Sul loro volto, si legge molto esplicitamente: “Di nuovo qui? Ma cosa vuole questa, oggi? Farci perdere del tempo?”. In un attimo, però, sono costretti a rimangiarsi tutto. Si devono ricredere. Quando mi vedono in quelle condizioni e, con il sangue che continua a scorrere, mi fanno distendere su un lettino. I dolori sono incalzanti e non mi danno tregua. Si allertano un po’ e chiamano una dottoressa, per farmi eseguire un elettrocardiogramma, ma lei non riesce. La frequenza delle contrazioni è troppo ravvicinata. Non c’è una pausa tra una contrazione e l’altra e dunque, non ci sono i margini per eseguire l’esame. La situazione allora sembra precipitare e comincia decisamente a complicarsi al punto che, si decide di intervenire con l’ossigeno. Posizionano una mascherina sul mio volto, e sperano che le mie condizioni possano migliorare. E’ a quel punto che arriva un ginecologo, ma francamente, oggi mi domando se quel titolo gli si addica oppure no. Ad ogni modo, mi guarda e dice: “Brava, continui così, lei è in travaglio. Ha la dilatazione giusta”.
Dio mio. Mi avevano raccontato che il travaglio poteva essere doloroso, ma non mi sembrava di ricordare che in condizioni normali bisognasse avere l’ossigeno e poi, avevo quella forte emorragia che cominciava a farmi allarmare piuttosto seriamente. “Non sono un medico – mi ripetevo - forse le cose devono andare così”.
Mentre sono su quel lettino, in giro vedo sguardi di persone che osservano attoniti. Solo quel dottore era convinto che stessi facendo il travaglio e che le cose proseguivano per il meglio.
Ad un certo punto, però, vedo una dottoressa, ma io la definirei un angelo, che mi viene incontro e mi chiede come sto. Io rispondo : “Male. Ma è normale che debba soffrire così tanto?“. Lei alza il lenzuolo dolcemente e impietrita risponde: “Non è normale”.
Allora mi fa sdraiare su una barella, litiga con il medico di turno. Io sentivo sbraitare. Ripeteva che lui era un dottore e sapeva cosa stava facendo. Scommise anche il suo camice da medico. Diceva che se lo sarebbe tolto, se la dottoressa avesse riscontrato qualche anomalia. Per lui io ero in travaglio. Niente altro. Solo un normalissimo travaglio. Oggi penso che quel dottore avrebbe dovuto dar fuoco al camice e abbandonare la professione medica. Non aveva capito che io e il mio cucciolo stavamo morendo. Non aveva capito che la sua incompetenza stava sconfinando sul terreno dell’inadeguatezza rispetto all’incarico che ricopriva.
Comunque, dopo una lunga discussione, la dottoressa affermò di assumersi ogni responsabilità. Mi prese sotto la sua custodia e mi accompagnò nel suo studio. Un’ecografia veloce e poi non ci fu più il tempo di fare niente.
Da quel momento scese il buio. Mi portarono in sala operatoria. Senza fare nessuna prova allergica. Anestesia totale e parto cesareo d’urgenza. Ho qualche ricordo della sala operatoria, ci sono entrata che ero ancora non del tutto addormentata. Quello che è successo durante l’intervento non lo so. So, però, che grazie al mio angelo custode, alle 17.45, il mio cucciolo è venuto al mondo. Un piccolo batuffolo che pesava poco meno di tre chili. Occhi azzurri come il cielo e nemmeno un capello in testa. Diciamo solo qualche piccolo ricciolo sparso disordinatamente su di una testolina piccolissima.
Io ringrazio Angela per aver accettato di condividere con me e con tutti i lettori del mio blog e delle mie pagine social, la sua esperienza di parto.
Se anche voi volete condividere la vostra esperienza di parto, potete mandarmi il vostro racconto via e-mail a: da.mamma.a.mamma2012@gmail.com oppure scrivermi un messaggio privato sulla mia pagina Facebook
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Questo racconto è da brividi!
RispondiEliminaChe triste e poco rassicurante trovare medici del genere...